Nel 1935 Régis Messac, scrittore, saggista e traduttore francese, che ha già provato sulla sua pelle l’esperienza traumatica della Grande Guerra, immagina lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. E ci prende.
Quella che però immagina Messac è una guerra chimica che culmina con lo scoppio di un’arma devastante che causa la fine dell’Umanità. Il dominio degli uomini sul pianeta non termina in maniera tragica ma grottesca: i gas che uccidono la popolazione mondiale deformano i volti delle persone, lasciando loro un sorriso surreale e ridicolo.
L’Umanità morì sghignazzando.
È un concetto simile a quello espresso da Eliot ne “Gli Uomini vuoti”:
È questo il modo in cui finisce il mondo. Non già con uno schianto ma con un lamento.
La fine degli Uomini di Messac, però, non è solo insignificante come un lamento, ma anche ridicola, perché gli uomini sono fondamentalmente stupidi, è questo il loro problema. Stupidi e autodistruttivi. Questo sentimento di estremo pessimismo nei confronti dei suoi simili si respira nel corso di tutto il libro, costruito come il diario di un sopravvissuto, Gérard Dumaurier.
Gérard scrive ciò che vede dal profondo di una caverna (il riferimento al mito della caverna di Platone è quasi obbligatorio) dove si è rifugiato assieme a un gruppo di otto bambini e una bambina. Mentre la capacità di adattarsi al Nuovo Mondo di Gérard è annientata dai ricordi della vecchia Umanità (di cui conserva il linguaggio, la scrittura, la storia), i bambini si abituano facilmente al nuovo ambiente: dimenticano il linguaggio e ne reinventano uno più semplice, infantile, adatto a descrivere le poche cose che capiscono.
Linguaggio e Superstizione (che poi diventa una sorta di Religione-Magica) sono le prime invenzioni del nuovo gruppo sociale e Quinzinzinzili ne è l’espressione fondamentale: un dio infantile, inutile, dal nome cacofonico, che fa sembrare i suoi adepti ancora più stupidi, impedendo loro di accedere a una comprensione più profonda e complessa del mondo circostante (scienza, filosofia, letteratura sono cose ormai morte e sepolte).
Gérard, che spesso dubita della sua sanità mentale, è ben presto relegato al ruolo di mero spettatore e cronista della nuova società, il preludio di una nuova Umanità, non meno stupida di quella che l’ha preceduta: così assiste al momento in cui nasce il Linguaggio, la Religione e infine la Guerra (simbolicamente ben prima dell’Amore, che pure è figlio della violenza).
E mentre il Nuovo Mondo si plasma, Gérard perde coscienza di se stesso, dimentica il proprio nome, inizia ad arretrare verso l’oblio ma senza opporre resistenza, anzi, decomponendosi come si decompongono le città ormai abbandonate e rase al suolo dalla guerra, ma con una sorta di rassegnato sollievo, l’ultima contestazione del Vecchio Mondo nei confronti del Nuovo.
Nulla di questa nuova Umanità che va formandosi fa ben sperare: nel romanzo di Messac non c’è alcuno spiraglio per la speranza, l’Uomo non è fondamentalmente malvagio, come sostiene William Golding ne Il signore delle mosche, ma stupido, incline all’autodistruzione e per questo destinato a commettere i medesimi errori, privo di memoria e dunque di futuro, sempre più povero intellettivamente. Costretto a percorrere sempre il medesimo ciclo di stupidità.
Ho ancora questa idea stupida, senza giustificazioni, che quando muore qualcuno bisogna piangere.
Con la memoria, muore l’autocoscienza e dunque il linguaggio, la capacità dell’Uomo di provare empatia e compassione e di trasmetterle ai suoi simili, muore la base fondante di una società civile: la vita quotidiana è un miscuglio di istinti primordiali, violenza e gesti liturgici privi di significato.
Il Nuovo Mondo, infatti, non è affatto nuovo, ma è un ritorno alle origini che dà vita a un’Umanità impossibilitata a evitare errori già commessi, sempre più impoverita di valori e capacità intellettiva.
Che cosa lascia, dunque, il romanzo visionario di Messac, a parte il senso di frustrazione e pessimismo che si dipana pagina dopo pagina?
Una riflessione filosofica, sociale, escatologica, descritta da un linguaggio emotivamente distaccato, un flusso di coscienza che la stessa voce narrante definisce “folle”, ma che invece è l’ultimo scampolo di consapevolezza di un’Umanità destinata all’oblio, perché ha dimenticato la sua storia. Una riflessione valida nel 1935, alle porte del secondo conflitto mondiale, e oggi. Un monito, l’ennesimo, da parte di uno dei tanti visionari pensatori che da tempo stanno mettendo in guardia gli Uomini.
Messac crede nella Scienza e nella Filosofia, nell’importanza della memoria storica, è critico nei confronti della Religione e di ogni rituale privo di ermeneutica, nutre poca fiducia nella capacità analitica delle masse: è un uomo, del resto, vissuto tra i due conflitti mondiali, un pacifista scomparso nel nulla la cui data di morte, 15 maggio 1945, è fittizia: arrestato dai Tedeschi nel 1943, passò di campo di concentramento in campo di concentramento, fino a svanire. Come lui, tanti pensatori furono fagocitati e annientati dall’ottusa struttura del nazifascismo. In Quinzinzinzili, incredibilmente, Messac anticipa in qualche modo la sua fine e, allegoricamente, quella di un’Umanità razionale e ispirata.
La narrazione post-apocalittica (e quella di Messac è uno dei primi esempi in letteratura) racconta impietosamente la vocazione dell’Umanità – da un certo momento della sua storia in poi o forse da sempre – a vivere sull’orlo permanente del disastro, dimenticando ciclicamente la sua storia.
Anche il romanzo di Régis Messac era stato dimenticato: è tornato nelle librerie italiane a marzo 2023, stampato da Tlon Edizioni. È una storia bella anche questa, che ci ricorda, oggi più che mai, il valore fondamentale della letteratura.
Mai dimenticare.