Da bambina rompevo le palle ai miei genitori notte e giorno perché volevo un cane. Lo volevo così tanto che costringevo il mio pupazzo preferito, Leopardino (sì, un leopardo… che fantasia, eh?) a fingersi cane. Quando Leopardino diventava cane si faceva chiamare Nikki.
Una volta ho costretto Leopardino/Nikki a nascondersi in bagno, al buio. Lì organizzavo visite guidate: ci facevo entrare i miei amici e indicavo la sagoma mezza nascosta dietro la tazza. “Lo vedi il mio cane? È lì!” Il bello è che i miei amici, bontà loro, ci credevano.
Poi arrivò la mia cuginetta, terrorizzata a tal punto dal “gigantesco mastino chiuso in bagno” che mia madre, per rassicurarla, accese la luce e svelò a tutti l’arcano… Ok, sto divagando.
Tutto questo per dire che i miei non ne hanno mai voluto sapere. Ogni volta che pregavo di avere un cane mi rispondevano:
1) in appartamento il cane soffre
2) soffrirai anche tu quando il cane morirà.
Da bambina, però, non me ne fregava niente della morte. Non ci pensavo, semplicemente. Non avevo neanche idea di cosa fosse. Volevo un cane, punto. Visto che, però, il cane non sarebbe mai arrivato (come il motorino a 14 anni) ero disposta a contrattare: mi sarei accontentata volentieri di un gatto, una tartaruga, un pesce rosso, un uccellino.
Nulla.
Ah, no. Scusate.
Breve divagazione: prima della mia fissazione per i cani, l’uccellino ce l’avevamo: era un “cardellino” ed era un regalo di mio nonno, nonno Antonio, il padre di mio padre. Un regalo che non aveva fatto a me personalmente, ma io davo per scontato che fosse così. Io avevo deciso che Cip, il cardellino, doveva essere mio. I miei non lo chiamavano Cip, naturalmente. Nessuno lo chiamava Cip, perché, in effetti, il cardellino non aveva un nome.
Il nome gliel’ho dato dopo che è morto: primo caso di “battesimo postumo” di un animale (oh, vi ho spoilerato che il cardellino è morto!)
Comunque un’estate lasciammo Cip ai vicini. Sul finire delle vacanze, una telefonata della vicina ci informò che Cip era morto… non si sa come. Forse aveva mangiato qualcosa di strano (la vicina disse “un pezzo di giornale”, quello che c’era sul fondo della gabbietta. Non che gli avesse fatto un’autopsia, infatti non ho mai capito come avesse dedotto una cosa simile… siccome la vicina era una stronza – allora non lo sapevamo, oggi sì – io sospetto che il cardellino l’abbia strozzato con le sue mani… ma va beh, diamole il beneficio del dubbio).
Comunque, parlavamo di Cip e della sua morte improvvisa: non mi ricordo come reagii, onestamente. Comunque non mi fece passare la voglia di avere un animale domestico, tant’è vero che qualche anno dopo, come ho già detto, iniziai con la tiritera del cane. Da bambini si ha un rapporto meraviglioso con la morte: è una cosa semplice e normale che può capitare solo gli altri e pure quando capita non è tutto questo granché (poi un giorno vi dirò come mio padre mi ha spiegato il concetto di morte quando avevo sette anni).
Comunque, non la spuntai: i miei sono calabresi e sfido chiunque di voi ad argomentare con un calabrese. Non ce la farete mai.
Ad ogni modo, qualche anno fa, il mio ragazzo decise di comprarmi un pappagallino. La reazione dei miei genitori fu contrastante: al mio annuncio “la famiglia si allarga” mia madre interpretò male e pensò che presto avrebbe avuto il sospirato nipote. Quando capì che il nipote era in realtà un pennuto, non mi parlò per tre giorni. Mio padre all’idea di diventare nonno reagì con un principio di infarto, perciò quando scoprì che si trattava di un pappagallino fu felice come se avesse appena vinto la lotteria.
Dettagli, comunque.
Chiamai il pappagallino Flint: perché anche se era una minuscola cocorita blu che stava in una mano, io da sempre desideravo avere il mitico pappagallo di Long John Silver che urlava “pezzi da otto! pezzi da otto”. Qualche settimana dopo averlo battezzato, scoprimmo che non era un maschietto, ma una femminuccia. Però rimase Flint, perché ormai mi piaceva.
Qualche mese dopo, scoprimmo anche che Flint era malata ed era pure vecchia, insomma aveva un’aluccia nella fossa. Tra visite dal veterinario e antibiotici dati via becco (e vi assicuro che è complicatissimo prendere una cocorita in mano, farle aprire il becco e darle da bere l’antibiotico), arrivammo anche alla morte di Flint: una cosa straziante, segno che la gestione della morte di un animale domestico per me è una cosa ancora astrusa.
Comunque prima che Flint morisse, avevo comprato un pappagallino per farle compagnia: Syd (da Syd Barrett). Era bello, forte e divertentissimo anche se averlo battezzato col nome di un cantante morto non era proprio il massimo dell’augurio. Comunque, quando Syd restò solo, decisi di dargli una compagna. Le cocorite femmina hanno la cera rosa (quella parte sul becco), i maschi ce l’hanno azzurra… sì, femminuccia colore rosa e maschietto colore azzurro, non potete sbagliarvi. Così arrivò Lou, una femminuccia, che prese il suo nome da Lou Reed un cantante MASCHIO (io e lo psicologo degli animali abbiamo un accordo) ma ancora in vita, almeno. Poi però morì pure Lour Reed, eh.
Promemoria: chiamare un animale col nome dei tuoi cantanti preferiti non porta bene, specialmente perché i tuoi cantanti preferiti sono tutti morti.
Ero così galvanizzata, che decisi che Syd e Lou dovevano mettere su famiglia e regalarmi tanti nipotini pennuti. Così comprammo un nido: da quando il nido apparve nella gabbia, Syd e Lou iniziarono a farsi la guerra. Syd aveva sempre la peggio: era gentile, quindi si ritrovava sempre con sonore beccate sulla testa. La gentilezza è una fregatura anche nel mondo animale. La guerra territoriale finì quando il nido fu tolto di mezzo. A un certo punto, avevo concluso che a Lou non piacesse Syd come “marito”. Mi domandavo perché, visto che Syd era bello, prestante, gentile e premuroso (sì, lo so, ogni scarrafon…). Comunque, niente nido, niente figli, niente famiglia allargata… cominciavo a sentirmi come mia madre.
Quando andai dal veterinario con entrambi, il dottore mi spiegò come mai il mio tentativo di farli accoppiare era miseramente fallito: anche Lou era un maschio (per una volta, non volendo, avevo azzeccato il nome!) e voleva quel nido, esattamente quanto lo voleva Syd, nella speranza che prima o poi nella gabbietta fosse capitata una bella pappagallina con cui procreare.
Da quel momento Syd e Lou vissero felici e rumorosi, finché, un giorno (sei anni dopo) Syd non fu trovato da mia madre sul fondo della gabbietta, morto. Esattamente due giorni dopo, Lou, che non aveva dato alcun segno di malattia prima di quel momento, lo seguì. Io ho pianto tipo per tre mesi, una roba patetica, giuro. Ogni volta che vedevo il posto dove prima c’era la loro gabbietta, mi venivano le lacrime.
Comunque una delle cose che rimpiango di più è che sono morti entrambi vergini. Spero che il paradiso degli animali sia diverso da quello “cristiano” degli uomini e sia pieno di fiumi di latte e miele e pappagalline discinte e disponibili all’accoppiamento.
Ecco, questa è stata la mia esperienza so far con gli animali domestici. Una strage che manco in Game of Thrones.
E qui inizia la riflessione pseudo-seria.
Mi sono resa conto che quello che dicevano i miei era vero: soffrirai. Sì, è davvero così. E la vita è così piena di sofferenze che forse non vale la pena di iniziare a voler bene a qualcosa che prima o poi ti lascerà. Qualcosa di cui, forse, non hai davvero bisogno…
Solo che questo vale per tutto, no? Se qualcosa non ce l’hai, certo non ti lascerà, ma il fatto è che ne sentirai comunque la mancanza. Vale per gli animali, per le persone, per i sogni.
Evitando di vivere, non eviti il dolore. Il fatto è che abbiamo bisogno di cose o persone o animali a cui voler bene, abbiamo bisogno di sentire la paura di perderle e il dolore di averle perse. È così che è la vita, è per questo che non abbiamo i piedi piantati nel terreno. Ci muoviamo, ci spostiamo e cambiamo. Perché il chiudersi nel proprio mondo sicuro, non ci rende più liberi o più sereni, soltanto più soli e quando sei solo, il dolore è molto meno sopportabile. E poi ci sono dolori e dolori, alcuni sono necessari, altri perfino giusti. Bisognerebbe vivere la paura della morte (e quella della perdita in generale) col distacco e la serenità di un bambino, pronto ad andare incontro a nuove avventure, anche dopo essersi sbucciato un ginocchio.
E quindi sì, voglio ancora un cane (o un drago).
Ciao! Sono una delle admin del Dragonfly, abbiamo fatto dei cambiamenti. Adesso il blog ha un nuovo indirizzo web e un nuovo banner, quindi sto avvertendo le affiliate, così potranno aggiornare la sezione dei blog amici. 🙂 Scusa il disturbo, di seguito ti lascio il nuovo link del Dragonfly Literary Blog.
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Grazie Rosie, aggiorno immediatamente 🙂