“C’è aria e sole, ci sono nuvole. Lassù c’è un cielo azzurro e dietro forse canzoni; forse voci più belle… C’è speranza, insomma. C’è speranza per noi, contro il nostro dolore.”
Pedro Paramo, Juan Rulfo.
Pedro Paramo è un labirinto popolato di fantasmi, voci sconnesse, bocche piene di terra, cieli limacciosi e stanze anguste come tombe. Ma c’è anche l’Amore, in molte forme. Incredibilmente.
Per apprezzare Pedro Paramo è necessario amare i mondi polverosi illuminati da una luce crepuscolare, l’oscurità mescolata alla speranza, le domande esistenziali. E bisogna non aver paura di guardare in faccia il Male e tutto quello che non avremmo mai voluto sapere.
I detrattori del romanzo sostengono che Juan Rulfo abbia scritto la sua storia su fogli volanti, li abbia poi lanciati in aria e quindi raccolti disordinatamente, dando vita a una struttura incomprensibile. Per me è questa la sua forza. Alla fine, infatti, una sorta di Ordine è raggiunto, anche se nel segno del Caos.
Chi, come me, ha un passato da archeologa conosce molto bene il sentimento che accompagna la scoperta di elementi affioranti, appena percettibili (spesso invisibili per chi non ha la giusta sensibilità). Attorno a quegli elementi si inizia a scavare e, strato dopo strato, la storia emerge e può essere ricostruita.
Leggere Pedro Paramo è un’esperienza molto simile a uno scavo archeologico, sarà per questo che io l’ho amato così tanto. Mi ha ricordato quello che mi ha spinto verso l’archeologia: scoprire storie, restituire i profili alle cose, recuperare ciò che sembra perso.
“Pedro Paramo è uno dei migliori romanzi della Letteratura in lingua spagnola, forse di tutta la Letteratura”.
Lo ha detto Borges. Ci possiamo fidare, credo.