Lacci di Domenico Starnone: tutte le famiglie infelici si somigliano

In poco più di cento pagine Domenico Starnone ci spiega che il matrimonio è la tomba dell’amore, che i figli sono i chiodi che ne chiudono la bara, che la felicità è solo una bellissima e intensa deviazione dalla via maestra e che ha un prezzo: la distruzione degli altri. Goditi pure la passeggiata, scatta tante foto, ma prima o poi dovrai tornare a casa, una casa ancora più infelice di come l’hai lasciata.
Perché niente è piú radicale dell’abbandono, ma niente è piú tenace di quei lacci invisibili che legano le persone le une alle altre. E a volte basta un gesto minimo per far riaffiorare quello che abbiamo provato a mettere da parte.
Ho letto il mio primo romanzo di Domenico Starnone e nonostante non ami le storie di rapporti familiari tossici, matrimoni falliti e via discorrendo ho apprezzato lo stile elegante e scorrevole e l’ottima gestione della trama che è sempre bilanciata, non sfugge mai al controllo dell’autore, nonostante i salti temporali e di spazio. La scrittura di Starnone dona leggerezza a un tema altrimenti indigesto, rendendolo scorrevole e intrigante come un giallo.
Lacci di Domenico Starnone: la trama

È il 1962 e Vanda e Aldo giovanissimi si sposano. Non sanno ancora nulla di loro stessi, il futuro è una massa informe di speranze e desideri, come per ogni ventenne, ma è un futuro di gioia e opportunità, di voglia di indipendenza.
Il matrimonio, però, è un buco nero nel quale gli individui sono destinati a sprofondare, svanendo, per fare posto a un’unica entità: nascono i figli, la famiglia finisce per fagocitare ogni aspirazione. Sono trascorsi dodici anni e Vanda si è progressivamente annullata occupandosi di casa, marito e figli, mentre Aldo, infelice e frustrato, si è innamorato di una ragazza giovanissima che gli ha fatto tornare l’amore per la vita e si è trasferito a Roma, abbandonando moglie e figli a Napoli.
Libro primo: una donna ferita che non vuole guarire
Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie. Lo so che questo una volta ti piaceva e adesso, all’improvviso, ti dà fastidio.
Questo è il fulminante incipit con il quale il romanzo si apre: è la prima delle diverse lettere che Vanda scrive al marito fuggiasco nei quattro anni di separazione che seguiranno: lui è andato via di casa, inseguendo l’amore per la bella e autonoma Lidia, e non ha alcuna intenzione di tornare.

Dalle parole di Vanda tracimano dolore, rabbia e incapacità di rassegnarsi. Lei, che ha sacrificato la giovinezza, la bellezza, le aspirazioni, l’identità per il marito e per i figli, è stata abbandonata come un oggetto rotto da un uomo che non riconosce più.
Le parole di Vanda sono piene di uno stupore rabbioso e manipolatorio, la donna fa appello all’onore, ai voti nuziali e ai figli, tratteggiando così la figura di una donna patetica e instabile, intrappolata nelle convenzioni a discapito della sua stessa felicità, proprio come suo marito. Una donna che si strugge ed è disposta a tutto pur di riavere un uomo che nemmeno stima più.
Libro secondo: l’uomo fugge dalla gabbia
Nella seconda parte, il racconto è ceduto allo stesso Aldo: inizia il libro secondo, il più lungo dei tre. Sono passati molti anni, Aldo ha ormai quasi ottant’anni e si prepara a partire per una breve vacanza al mare assieme a sua moglie. Sì, i due sono tornati assieme dopo quattro anni di separazione, Aldo ha lasciato scivolare via Lidia dalla sua vita, vinto dalla pressione operata su di lui non soltanto dalla moglie attraverso i figli, ma dalla società stessa che rende più semplice accettare un matrimonio infelice che un divorzio.
Continuerai cosí per sempre, non sarai mai quello che vuoi ma quello che capita.

La vita che hanno avuto è stata infelice e allo stesso tempo perfettamente normale, come apprendiamo via via che il racconto di Aldo va avanti. L’amore per Lidia è rimasto: nei quattro anni in cui è stato con lei, Aldo è stato felice, si è realizzato anche lavorativamente, la sua esistenza era qualitativamente migliore. E allora perché è tornato a casa? Lo ha davvero fatto per i figli? O la verità è che più facile sopportare un’esistenza piatta e senza sorprese che una fatta felice ma piena di incertezza e sfide?
È difficile soffrire in modo simpatico.
Tornati dalla vacanza, Aldo e Vanda trovano la casa messa a soqquadro dai ladri: il gatto è scomparso e, mentre prova a rimettere in ordine, Aldo si rende conto che è scomparsa anche qualche altra cosa, qualcosa che appartiene al passato e che non deve saltare fuori, per nessuna ragione.
Libro terzo: i frutti di un matrimonio infelice
Il terzo libro, breve e dolorosissimo, è affidato alla voce di Anna, la figlia minore, in un devastante dialogo col fratello Sandro, con il quale non parla da anni. Questa è la parte in cui, infine, tutti i nodi vengono al pettine e la vita di questa famiglia così normale anche nella sua infelicità è messa totalmente a nudo.
C’è una distanza che conta piú dei chilometri e forse degli anni luce, è la distanza dei cambiamenti.
Anna e Sandro sono il risultato degli errori dei loro genitori: la fuga vigliacca ed egoista del padre, la patetica e rabbiosa disperazione della madre, il ricongiungimento di facciata che non ha fatto altro che ricreare un quadretto familiare fatto di legami artificiosi (i lacci del titolo), tenuto assieme dal senso di colpa e da un soffocante e penoso obbligo morale in cui l’amore non è neanche più contemplato.

Siamo tutti il risultato di traumi infantili, sembra dire Starnone, la maggior parte dei quali si sviluppano in famiglia, un’istituzione che per ragioni culturali (nel nostro caso di matrice cattolica) è quasi impossibile mettere in discussione.
La famiglia è un nucleo sociale, un’invenzione umana, e dunque è molto lontana dall’essere sacra o perfetta. Aldo è il risultato della sua famiglia disfunzionale di origine e i suoi traumi causano il comportamento che turba a sua volta i figli e, con ogni probabilità, accadrà lo stesso con i figli dei suoi figli.
Conclusioni: tutte le famiglie infelici si somigliano
“Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” diceva Tolstoj in Anna Karenina. In questo caso, sembra invece che tutte le famiglie infelici un po’ si somiglino, perché il tipo di famiglia descritto da Domenico Starnone si fonda più sul dovere e la fedeltà ai giuramenti fatti che sul legame sincero fra i due coniugi.
Ed è per questo che anche se ormai quel legame è logoro, anche se mancano felicità, attrazione sessuale, stima e curiosità, bisogna perseverare, “non si può buttare via tutto”, si fa “per i figli”, ma è l’ipocrisia di una società che ci invita a mentire e tradire pur di non incrinare l’immagine sacra della famiglia, la nostra istituzione base.
Che conta che poi, come nel caso di Aldo e Vanda, quel matrimonio sia stato un quarantennio di bugie, tradimenti, frecciatine, litigi, incomprensioni, segreti, noia? L’importante è trascinarsi insieme, finire seppelliti l’uno accanto all’altro, come vuole la tradizione. Quante coppie sposate ancora convivono in questo tipo di apparente normalità così piena di solitudine, noia, infelicità? Tante, sembra raccontare questa storia.

La famiglia è un luogo asfissiante, ma è il solo luogo dove si può fare ritorno, perché è costruita sui sensi di colpa e l’uomo è più capace di vivere di sensi di colpa che di felicità. Starnone, forse, ci mette in guardia proprio su questo pericolo, mostrandoci che non solo la madre e il padre non sono figure sacre e infallibili ma che non lo è neanche la famiglia e che una giusta separazione porta di certo più felicità (a tutti, figli compresi) di un’unione triste e forzata. Aldo andando via ha distrutto sua moglie, tornando ha distrutto i suoi figli.
L’amore può finire, nulla è eterno, e per essere felici – o quanto meno per non avere troppi rimpianti – è necessario fare scelte coraggiose, anche dolorose. Se il nostro matrimonio è a pezzi, se la persona con la quale viviamo non ci piace più, se per essere felici dobbiamo trovare la gioia fuori di casa, con altre persone o in altre attività, se non ci sentiamo rispettati o manchiamo di rispetto alla persona con cui stiamo, stiamo fallendo. L’unica possibile soluzione sarebbe porre fine alla relazione, senza ripensamenti. Ciò non accade quasi mai, ci racconta Lacci, ed è per questo che alla fine la felicità non è la meta cui tendiamo, ma soltanto il ricordo di una scelta che non si è saputo afferrare.
