Antonia Pozzi ha scritto “Grido”, sei anni prima di togliersi la vita. Aveva 26 anni, e quel che si dice “una vita davanti”. Ma la vita, per Antonia Pozzi, era “disperazione mortale”, come scrisse in un biglietto di addio ai genitori.

Il padre, non potendo accettare l’idea del suicidio della figlia, fece sparire ogni scritto riguardante la volontà di Antonia di farla finita. Testamento, poesie, lettere: tutto fu manipolato per poter diffondere l’idea di una morte accidentale.

Il suicidio di Antonia Pozzi è un gesto tragicamente dimostrativo benché molto intimo. Qualcosa a metà strada fra la morte plateale di Mário de Sá-Carneiro – che indossa il frac e assume della stricnina – e quella intima e solitaria di Pavese, coi sonniferi, in una stanza d’albergo.

È inverno, il 3 dicembre del 1938, a Milano c’è la neve. Antonia prende la bicicletta, come fa spesso, raggiunge l’Abbazia di Chiaravalle. Qui, prende una dose ciclopica di barbiturici e poi si stende nella neve, in attesa. Una morte tragica e dolce, scenica e intima, circondata dalla natura che tanto amava e descritta così bene nelle sue poesie, dove assieme al dolore dell’esistenza, è assurdamente chiaro l’amore per la vita.

Anni prima, profeticamente, aveva scritto:“Per troppa vita che ho nel sangue, tremo, nel vasto inverno”.

Forse non è il massimo parlare di suicidio di prima mattina, in un giorno lavorativo e piovoso. Ma la poesia è anche questo: un peso che alcuni portano per noi.

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