Questo libro l’ho letto fra le nuvole. Ero in volo da Manchester a Napoli, tre ore da spendere in qualche modo e per me il modo migliore per viaggiare è farlo in compagnia di un libro. E del caffè, anche quello, sì. Quindi, seduta col mio caffè lungo inglese (sarebbe stato l’ultimo per il momento, perché a Napoli mi aspettavano 40 gradi, la coda di Lucifero), e col mio Kobo fra le mani, mi sono buttata a capofitto in una nuova storia, La figlia femmina di Anna Giurickovic Dato, edito Fazi, uno dei romanzi candidati al Premio Strega (anche se io e lo Strega non ci siamo mai presi più di tanto). Era un libro abbastanza breve perché potessi finirlo in volo e annoverarlo tra le letture portate a termine in un’altra dimensione, quella aerea. Speravo anche mi piacesse, devo dirlo, e invece no. Mi ha deluso. Vi spiego perché.
Attenzione, ci sono spoiler: sarebbe stato impossibile parlare di questa storia senza rivelarne il finale e le macro scene.
Titolo: La figlia femmina
Autore: Anna Giurickovic Dato
Editore: Fazi
Data di uscita: 26/01/2017
Collana: Le strade
Prezzo: 13,60 € (cartaceo) | 6,99 € (ebook)
Pagine: 192Trama: Sensuale come una moderna Lolita, ambiguo come un romanzo di Moravia, La figlia femmina è il duro e sorprendente romanzo d’esordio della giovane scrittrice Anna Giurickovic Dato.
Ambientato tra Rabat e Roma, il libro racconta una perturbante storia familiare, in cui il rapporto tra il padre, Giorgio, e sua figlia Maria, nasconde un segreto inconfessabile. A narrare tutto in prima persona è però la moglie e madre Silvia, innamorata di Giorgio, ma incapace di riconoscere la malattia di cui l’uomo soffre. Mentre osserviamo Maria non prendere sonno la notte, rinunciare alla scuola e alle amicizie, rivoltarsi continuamente contro la madre, crescere dentro un’atmosfera di dolore e sospetto, scopriamo mano a mano la sottile trama psicologica della vicenda e comprendiamo la colpevole incapacità degli adulti di difendere le fragilità e le debolezze dei propri figli.
Quando, dopo la morte misteriosa di Giorgio, madre e figlia si trasferiscono a Roma, Silvia finalmente si innamora di un altro uomo, Antonio. La cena organizzata dalla donna per far conoscere il nuovo compagno a sua figlia, risveglierà antichi drammi, farà sanguinare di nuovo la ferita rimasta aperta. Maria è davvero innocente, è veramente la vittima del rapporto con suo padre? Allora perché prova a sedurre per tutta la sera Antonio sotto gli occhi annichiliti della madre? E la stessa Silvia era davvero ignara di quello che Giorgio imponeva a sua figlia?
La figlia femmina mette in discussione ogni nostra certezza: le vittime sono al contempo carnefici, gli innocenti sono pure colpevoli. È un romanzo forte, che tiene il lettore incollato alla pagina, proprio in virtù di quella abilità psicologica che ci rivela un’autrice tanto giovane quanto perfettamente consapevole del suo talento letterario.
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La mia recensione
Diceva Tolstoj: «Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», in uno degli incipit più spietatamente veri – belli – mai stati scritti (quello di Anna Karenina, un libro che ho amato moltissimo). Mi è tornata in mente, questa frase, leggendo il romanzo di Anna Giurickovic Dato, perché, in realtà, la famiglia protagonista del suo romanzo (padre, madre e una figlia) ha l’aspetto di una famiglia felice, anche troppo, da “Mulino Bianco” – per usare una metafora televisiva anni ’90 – ma che nasconde tutti i cliché sull’infelicità familiare: un’infelicità non personale, insomma, a dispetto di quanto sostiene Tolstoj, ma retorica e un po’ troppo costruita, per i miei gusti.
Di che famiglia parliamo?
Un ragazzo ambiguo e visibilmente infelice, Giorgio, sposa una ragazza bisognosa di essere amata, Silvia, il matrimonio è fin da subito strano, il rapporto tra i due sfuggente, i due hanno una figlia, Maria, che cattura subito le attenzioni del padre, attratto dalle bambine praticamente da sempre (ecco il motivo di tanta ambiguità e infelicità!). Iniziano i cliché: un marito e padre carnefice di sua figlia e sua moglie, vittima della passione abominevole per le bambine, che lo fa agire quasi contro la sua volontà, una donna/moglie/madre debole, gelosa e repressa, che ignora tutti i (chiarissimi) segnali della “malattia” del marito. Infine Maria, anche lei, come una moderna Lolita, vittima/carnefice. Al trio si aggiunge la figura della nonna, la madre dell’uomo, l’unica a portare sprazzi di normalità sulla scena: donna colta, intelligente, acuta, che ha ignorato, anche lei, tutti i segnali. Dietro
Troppi stereotipi, troppa carne al fuoco, tutta insieme.
Al POV di Silvia è affidata la maggior parte della narrazione, raramente intervallata dal POV di Maria, che s’inserisce per riferire particolari che la madre non può conoscere. Silvia racconta la discesa negli inferi di suo marito con una dovizia di particolari che mi ha fatto domandare: “Com’è possibile che se ne sia accorta solo ora?”. Silvia riesce a ricordare in maniera nitida i primi segnali della follia di Giorgio, percepiti con tale chiarezza che Silvia, a distanza di anni (il momento in cui racconta) ricorda alla perfezione non solo i gesti ma anche le espressioni, le sensazioni, i millesimi di secondo. Francamente, le domande sarebbero arrivate molto prima, no?
Mi spiego meglio: quando Silvia racconta l’attrazione di Giorgio per le bambine, lo fa usando l’attenzione per i dettagli e il linguaggio morboso di un pedofilo, come se raccontando, stesse interpretando i pensieri del marito: è realistico che a distanza di tutti questi anni, Silvia ricordi ancora così nitidamente i particolari (piccoli seni acerbi, mutandine che si scostano lasciando intravedere qualcosa… insomma “la peluria sul braccio” di cui parla in professore Humbert Humbert in Lolita, un particolare tenero e morboso, che assume il suo preciso significato proprio perché raccontato dall’uomo in persona e non da qualcun altro che ne interpreta il pensiero)?
In questa breve scena, Giorgio e Silvia sono appena sposati e sono a pranzo con amici che hanno una figlia, Bibì. Silvia ci racconta questa scena parecchi anni dopo, così come la ricorda:
«Bibì che modi sono? Più distacco dal cibo, s’il vous plaît», pretendeva la mamma, vergognandosi di avere una bambina così vorace. Mi voltai e Giorgio era rosso in viso e guardava le labbra umide di Bibì, la sua bocca piena, i denti affilati che mordevano affettuosamente ogni brandello di cibo le si presentasse davanti, gli occhi ridenti e infiammati, le dita piccole e tonde, unte d’olio, e che forse lei presto avrebbe succhiato. Succhierai anche me, piccola Bibì? sembrava voler chiedere disperatamente mio marito Giorgio; mentre noi a tavola si rideva e si scherzava insieme, lui aveva lo sguardo grave, il volto irrigidito nel frenare un impulso troppo forte. Oggi mi è tutto così chiaro, eppure allora gli presi la mano sotto il tavolo e con occhi calmi – «Tutto bene, amore? – lo tenni stretto. Lui mi guardò ansante, mi toccò tra le gambe cercando riparo dai pensieri, che imbarazzo!, poi s’infilò di nuovo nei nostri discorsi…
Silvia ha una visione così chiara di quel momento, così passato, da essere poco realistica, come poco realistico è il linguaggio che usa per descriverci cosa secondo lei stava pensando in quel momento suo marito (solo un pedofilo – o uno scrittore molto bravo – può entrare nella mente di un pedofilo). Inoltre se tutti i pedofili si comportassero in maniera così chiaramente “malata” come Giorgio, sarebbe molto più facile scovarli: diventa rosso, si agita, stupra la bambina con gli occhi, mentre la guarda come un affamato guarderebbe un pollo allo spiedo (gli altri non si accorgono che il loro ospite è in preda a una crisi isterica?) infila una mano tra le gambe della moglie, del tutto privo ormai di razionalità e decoro: e a Silvia non viene un dubbio. Non mi sembra possibile. Inoltre Silvia sostiene che tutti stanno ridendo e scherzando, ma se anche lei fa parte del gruppo che ride e scherza, come fa a notare e a ricordare tutti i particolari della bambina e di Giorgio? Ricordiamo anche che, a tavola, sono in realtà quattro adulti e Bibì, direi che se un commensale comincia a diventare rosso, taciturno, a sudare qualcuno dovrebbe notare la stranezza, o no?
In una scena successiva, nello stesso capitolo, Silvia trova Giorgio che si masturba nella sua stanza, affacciato alla finestra, mentre guarda la piccola Bibì in piscina: colto sul fatto, l’uomo fa sesso con lei, un rapporto furioso, arrabbiato e veloce, per sfogare la propria passione repressa. E Silvia continua a non capire. Boh.
Anna Giurickovic Dato scrive bene, anche se io non sono una fan del lirismo contemporaneo, pieno di frasi ad effetto e parole scelte più per il significante che per il significato: un linguaggio un po’ troppo auto-celebrativo, che di solito mi fa perdere di vista la trama, i personaggi, la struttura stessa del romanzo, come se tutto si risolvesse a trovare le citazioni perfette da sottolineare e condividere su Facebook.
Tra l’altro, parlando di frasi fatte, nel romanzo è inserito un riferimento al kintsugi, la pratica giapponese di riparare i vasi rotti con l’oro, per evidenziarne le “cicatrici” e dunque la storia, cosa che rende l’oggetto ancora più prezioso: la solita storia del vaso giapponese che abbiamo tutti letto mille volte, al pari di quella del calabrone che non sa che non può volare e quindi vola lo stesso. Ecco, da un autore io non mi aspetto questa retorica e questa banalità.
A proposito del discorso sul linguaggio, vi incollo qui una riflessione di Piero Dorfles sul “priapismo letterario” che giudico illuminante (se volete leggere tutto l’articolo, cliccate qui):
[…] Mentre a me sembra soprattutto che usino una scrittura pesante, barocca, artificiosa, gonfia; direi erettile. Uno stile fortemente involuto, che sembra ideato apposta per nascondere un certo vuoto di idee e l’esilità degli intrecci, personaggi di poco spessore in una trama poco plausibile. Una sorta di priapismo letterario. […] Un gonfiore stilistico che vuole dare al lettore la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di ardito e di unico; una prepotente assunzione del diritto di usare il dizionario stocasticamente, per ottenere il massimo stupore nel fruitore. Certo, si potrebbe sostenere che Gadda faceva lo stesso, che la lingua la inventava anche lui, che piegava alle sue esigenze sintassi e terminologia. Ma innanzitutto era Gadda, e poi lo faceva con maestria inimitabile. Ma soprattutto con uno stile che aveva una sua coerenza interna. Oggi, invece, e non solo per le autrici qui citate, sembra ci sia una rincorsa a épater les bourgeois, ad avvolgerci in un vocabolario che si vorrebbe immaginifico, a sbalordirci con gli effetti speciali.
Prima o poi scriverò un pezzo su questa tendenza della letteratura contemporanea. Ma andiamo avanti.
I dialoghi fra i personaggi non sono realistici, sempre troppo costruiti, perfino quando a parlare è la piccola Maria: il suo è lo stesso, retorico e fastidioso tono degli adulti che si crogiolano nel loro “parlar bene”, ma del resto a lei, gli adulti, si rivolgono con frasi complesse, che una bambina, nella realtà, non capirebbe mai. I registri narrativi, insomma, sono completamente sbagliati e non c’è differenza fra i linguaggi usati dai diversi personaggi, è come se a parlare fosse sempre la stessa persona, con un nome e un aspetto diverso (anche sulla caratterizzazione del linguaggio dei vari personaggi, un giorno non lontano, scriverò un articolo).
Esempio di un dialogo tra Giorgio e Silvia su come educare la loro bambina (che vuole assistere a tutti i costi al macello di una pecora):
«Li proteggiamo troppo, i nostri figli. Se addirittura neghiamo a Maria di conoscere quale sia il ciclo della vita, e cioè che da che mondo è mondo gli animali si ammazzano e si mangiano tra di loro, che adulta stiamo crescendo? Un’adulta che non appena scoprirà che non c’è bene senza male, e che bellezza e brutta vanno a braccetto, sarà vittima di un esaurimento nervoso e incapace di rattoppare gli strappi della vita?»
Questo lezioso e pesantissimo discorso, infarcito di retorica, viene pronunciato da Giorgio (ma potrebbe essere Silvia o anche la stessa Maria, perché il linguaggio è sempre lo stesso) in strada, mentre stanno per uccidere una pecora davanti agli occhi di sua figlia.
Altro esempio, un discorso fra Silvia e sua suocera (che ha almeno il pregio di capire, in extremis, che qualcosa con Maria non va):
«Ti prego, Silvia, controllala. Male non fa, e io non sono convinta che ogni cosa sia al suo posto. Guardandola negli occhi, talvolta, mi pare che abbia lo sguardo d’un vecchio»
«D’un vecchio?»
«Sì, d’un vecchio, come se gli occhi fossero velati da retine troppo grigie, sbiaditi»
Retine troppo grigie? Lo sguardo d’un vecchio? Mamma mia, ho pensato mentre leggevo, nessuna persona nella realtà parla in questo modo! Questo linguaggio rende tutto estremamente pesante, insopportabile, finto.
Vi invito a leggere questo dialogo, a parte la pesantezza delle parole usate, la retorica e i concetti non certo adatti a un ragazzino, riuscite a distinguere quando a parlare è l’adulto e quando la bambina?
«Se arrivi così in alto, che differenza fa che tu sia un genio o un folle? E con questo intendo: chi decide chi è il genio dell’arte se non ha platea che è lì per contemplare?»
«Mmm…»
«A chi importa poi se il genio era genio e perché, o se invece era un folle che tutti credevano fosse un genio? Mi sembrano discussioni pleonastiche e che lasciano il tempo che trovano».
«Pleonastiche… Che poi, quanti malati di emicrania esistono e quanti Picasso?»
«Appunto»
«Questo scienziatucolo olandese era proprio un bello scemo».
Credo, però, che al di là dello stile (che può anche piacere, alla fine si tratta di gusti personali) uno dei più gravi problemi di questa storia è il paragone, inevitabile, con la Lolita di Nabokov, un capolavoro assoluto contro il quale chiunque uscirebbe sconfitto. In questo caso, l’autrice ne esce con le ossa in frantumi, perché la sua Maria non ha la crudele bellezza e il potere sensuale di Lolita, è solo uno sbiadito ricalco, senza contare che la veemenza e la potenza visiva di Nabokov sono elementi impossibili da eguagliare. Insomma, credo che il tema andasse trattato in tutt’altro modo, così invece i paragoni sono ovvi e impietosi.
La Lolita di Nabokov è una bambina (e poi adolescente) consapevole del potere che esercita sul protagonista, è stata trascinata all’inferno e ne è uscita arrabbiata e crudele: lui le ha tolto l’infanzia, lei gli strappa via la vecchiaia. Maria, invece, passa da vittima a carnefice sibillina e machiavellica in una manciata di pagine e senza un’evoluzione raccontata, in un tempo troppo breve.
Maria è una bambina violata, che non dorme più la notte ed è violenta con se stessa e gli altri, a tredici anni, però, diventa, in occasione di un pranzo col nuovo compagno della madre (Giorgio è ormai uscito di scena da tempo) una Lolita consapevole e sensuale che usa le sue arti seduttive per lanciare a sua madre segnali d’aiuto (anche questo è un cliché). A differenza di Lolita, in cui si racconta l’amore malato di un uomo per una ragazzina, in “La figlia femmina” il pedofilo è il padre e la madre, cieca e debole, si trasforma in complice. Insomma, più che l’amore di un uomo per le ragazzine, il libro sembra voler raccontare la storia di una violenza lunga e terribile, ancora più terribile perché commessa da un padre, la storia di una prigione familiare, di un nucleo sgretolato tenuto in piedi per nascondere la malattia di Giorgio e la debolezza di Silvia.
Invece, durante il racconto, l’autrice sembra perdere la strada: dagli abusi familiari si passa a Lolita.
Per chiarire, l’oggi da cui Silvia parla è quello che la vede impegnata con Antonio, il suo nuovo compagno: Silvia ha scoperto cosa Giorgio ha fatto a Maria, ha vissuto terribili momenti con sua figlia, con la quale ha un rapporto di odio/amore, di cui non capisce l’ostilità… come fa a non capirla? Sua figlia ha subito abusi sessuali da parte del padre, che avrebbe dovuto proteggerla, sua madre, che avrebbe dovuto proteggerla, non ha fatto niente perché impegnata a piangersi addosso, praticamente Maria è un caso da manuale e Silvia continua a non capire. Boh. In ogni caso, Antonio è invitato a pranzo perché Silvia vuole presentarlo a Maria, sperando di ritrovare così un contatto con sua figlia (del resto, quale madre non porterebbe un altro uomo in casa, dopo ciò che ha subito sua figlia che ha ancora tutta l’aria di non essere guarita?).
Durante questo famoso pranzo, Maria-Lolita prova a sedurre platealmente davanti a Silvia, Antonio: e questa direi che è la parte meno credibile e meno riuscita dell’intero romanzo. Intanto dura troppo, talmente tanto da risultare noiosa, con tutta la sfilza di particolari sui comportamenti di Maria, ma la cosa più brutta è che Silvia, non contenta, entra in competizione con sua figlia per le attenzioni dell’uomo.
Certo, Silvia ha il diritto di farsi una vita, dopo quello che anche lei ha subito, ma non dovrebbe provare anche dei sensi di colpa, nei confronti di sua figlia? Ma se pure la competizione tra le due fosse credibile (e ripeto in questo caso non mi sembra), gli innumerevoli tentativi di seduzione di Maria sono così tanti, così costruiti, così lunghi, così machiavellici da sfociare nella macchietta, con Silvia che, alla fine, osserva impotente sua figlia farsi fare un massaggio mezza nuda dal suo compagno, il quale possiede la risolutezza di un cetriolo, perché si fa abbindolare da una tredicenne come se niente fosse.
Resta il fatto che far innamorare Silvia per due volte di un pedofilo mi sembra sinceramente un po’ troppo.
Altra leggerezza è quella che riguarda il modo in cui l’autrice ha deciso di escludere dalla vicenda qualsiasi aiuto psichiatrico: negli anni, Maria dà segni di disordine post-traumatico da stress, Silvia a un certo punto capisce che ha subito violenza da Giorgio e non pensa, neanche per un momento, di portarla da uno psicologo? Se commette questo terribile errore per la vergogna di dover ammettere le sue colpe, perché ancorata a un concetto di famiglia che non è mai esistito, l’autrice non ce lo fa capire. Semplicemente, Silvia non pensa che Maria abbia bisogno di parlare con un professionista.
Il finale, con Silvia che caccia via di casa il suo nuovo (pedofilo) fidanzato, prima che la tragedia possa ripetersi, e si chiude nello spazio chiuso della casa, carico di silenzi, sensi di colpa e rimpianti assieme a sua figlia, come in una prigione consapevole, è scontato ma avrebbe funzionato (l’idea che non c’è ritorno, né salvezza dopo fatti simili, anche se si ha la voglia di salvarsi) se la storia non fosse stata raccontata in questo modo.