«Un’indagine asciutta e sconvolgente della violenza in un riformatorio in Florida ai tempi delle Leggi Jim Crow: in definitiva una storia potente di determinazione umana, dignità e riscatto»
La motivazione della giuria del Premio Pulitzer assegnato all’autore per questo libro nel 2020.
Elwood Curtis crede in Martin Luther King e vuole andare al college, sulla strada per il primo giorno della sua nuova vita accetta un passaggio su un’auto rubata e finisce in riformatorio. L’idea è di trasformare quello che secondo la legge è un delinquente in “un uomo rispettabile e onesto”. Solo che la Nickel Academy è l’inferno e attraverso l’inferno, si solito, non arriva salvezza.
Se anche voi siete tipi da arrabbiarvi per le ingiustizie, questo libro vi farà arrabbiare molto. Ma vi commuoverà, anche. E vi farà sperare.
Tutto nasce da un disguido: Elwood, il protagonista adolescente di questa storia, si fa dare un passaggio da un uomo che ha appena rubato un’auto. L’uomo è nero, come Elwood, del resto. L’uomo è un ladro, ma Elwood no, lui sta solo andando a scuola, sta per iniziare la sua nuova vita, una vita che vuole sia diversa da quella della maggior parte dei neri.
I have a dream, come avrebbe detto il suo beniamino Martin Luther King. Il sogno di Elwood è grande, forte, limpido, bello.
Non vuole piegare la testa, vivere ai margini e sottostare alla brutalità di un mondo fatto dai bianchi solo per i bianchi, Elwood vuole seguire e mettere in pratica gli insegnamenti di Martin Luther King, studiare, leggere, farsi una cultura, uscire dal buco in cui il suprematismo bianco vorrebbe tenere i neri e creare un uomo nuovo, un nero capace di memoria storica e di progettualità futura, un uomo che ha un ruolo da protagonista nella storia, capace di autodeterminarsi, perché è un uomo colto che conosce se stesso, il mondo e la sua storia.
Elwood has a dream, ma come spesso accade ai desideri che si manifestano nella parte sbagliata del mondo, quel sogno si scontra con una realtà crudele e ottusa. Il “disguido”. La polizia pensa che Elwood c’entri qualcosa nel furto dell’auto, nonostante l’uomo alla guida, dica loro che no, al ragazzino lui stava solo dando un passaggio.
Se a sedere sul sedile passeggero ci fosse stato un ragazzino bianco, la polizia forse gli avrebbe creduto, il disguido sarebbe risolto. Ma Elwood è nero, quando si tratta di neri i disguidi non esistono, esistono solo certezze: i neri rubano, i neri delinquono. Elwood finisce in riformatorio. Da questo momento, la vita del ragazzino sarà segnata da una catena ininterrotta di terribili ingiustizie, di violenze, fisiche, verbali, psicologiche, che sono la metafora delle violenze terribili che il popolo nero ha subito per secoli, soprattutto a partire da quell’evento incancellabile, vergognoso per tutta l’umanità, che è la tratta atlantica degli schiavi africani, o quello che i neri definiscono black holocaust (olocausto nero).
I ragazzi venivano chiamati studenti, anziché detenuti, per distinguerli dai criminali violenti che popolavano le prigioni. I criminali violenti, aggiunse Elwood, facevano tutti parte del personale.
Elwood passa da un mondo razzista ma pur sempre libero, dove è ancora è possibile sognare e progettare una vita diversa, lottare per i propri diritti e costruirsi un futuro, a una prigione senza finestre in cui il razzismo, la violenza e la rassegnazione all’ineluttabile sono le uniche leggi. Assieme ad Elwood, nella Nickel Academy anche noi scopriamo nuove regole (mai reagire), un nuovo linguaggio (“andare a prendere il gelato”, vuol dire essere prelevati all’improvviso durante la notte ed essere massacrati di botte, per esempio) e una nuova, brutale toponomastica (“la collina degli stivali” è dove i ragazzi vengono seppelliti, dopo essere stati massacrati di botte, facendo credere ai loro parenti che sono fuggiti).
Quelli che conoscevano la storia degli anelli negli alberi sono quasi tutti morti , ormai. I ferri sono ancora lì. Arrugginiti. Conficcati nel cuore del legno. Pronti a rendere testimonianza a chiunque abbia voglia di ascoltarli.
Eppure, invece di adeguarsi alla malvagità imperante, Elwood decide di passare dalla teoria alla pratica e di fare tesoro degli insegnamenti del Reverendo King applicando quella resistenza non violenta che era l’anima dei suoi discorsi.
La scrittura semplice, asciutta, mai ridondante di Colson Whitehead consente di entrare a passi decisi nella vita e nel mondo non solo di Elwood ma di tutte le vittime della brutalità dell’uomo. Colson Whitehead non si lascia andare a un racconto stereotipato sul razzismo, sarebbe stato troppo facile. Da queste pagine – complici le tante citazioni tratte dai discorsi di Martin Luther King – non emerge solo la (sacrosanta) rabbia di un popolo che per troppo tempo è stato ridotto in catene, ma anche una sottile, impalpabile speranza, l’idea che all’assurdità del razzismo si possa rispondere solo con cultura e la resistenza non violenta, che si nutre in parti uguali di tragedia e coraggio.
Dobbiamo credere nel profondo dell’anima che siamo qualcuno, che siamo importanti, che meritiamo rispetto, e ogni giorno dobbiamo percorrere le strade della nostra vita con questo senso di dignità e di importanza.
Alla fine, quello che il lettore prova leggendo questa storia è la stessa rabbia, la stessa speranza di Elwood, di tutti i neri, di tutte le vittime, di tutti i martiri per la conquista dei diritti civili.
Il finale è una piccola perla, il cerchio si chiude con un colpo di scena che penetra nel cuore del lettore come una coltellata ma sottolineando quel senso di speranza e di rivalsa che pervade tutto il romanzo. I ragazzi della Nickel sembra dirci che c’è un solo modo di combattere la violenza: non farsi contagiare, nutrire il proprio futuro di una coraggiosa nobiltà d’animo, malgrado tutto.
Dai loro padri avevano imparato come si tiene in riga uno schiavo, una brutale eredità trasmessa come una consuetudine di famiglia. Portarlo via dai suoi cari, frustarlo finché non ricorda altro che la frusta, incatenarlo perché non conosca altro che le catene. Un soggiorno dentro una scatola di ferro, a cuocersi il cervello sotto il sole, poteva far rinsavire un negro, e lo stesso valeva per una cella buia, una stanza sospesa nell’oscurità, fuori dal tempo.