“A quei tempi non mentivo, ma non confidavo mai le mie vere emozioni, se non al mio cane… Ero sempre sorridente e credo che i miei genitori non abbiano mai sospettato che ero triste… Non avevo nient’altro da nascondere allora, ma nascondevo questo: la mia angoscia, la mia tristezza… Magari sarebbero stati pronti ad ascoltarmi, come Florence del resto, eppure non sono mai riuscito a parlare… E quando rimani incastrato in questo ingranaggio, per non deludere, la prima bugia chiama la seconda, e poi vai avanti tutta la vita…”
L’avversario, Emmanuel Carrère
Dopo il Sosia il Dostoevskij, ho deciso di fare una mini-pausa dai russi con questo romanzo di Carrère, il primo di lui che leggo. Me lo sono portato a Lione, perché quando viaggio mi piace leggere autori del posto (perché sono pazza e ossessiva, sì).
Dopo l’immersione negli abissi della follia col Sosia, ho ritrovato ne l’Avversario più o meno lo stesso tema (il nemico più grande è dentro di noi) e tanti altri (il solito “sottosuolo” Dostoevskiano).
È un libro tosto ma che si legge con semplicità, la scrittura chirurgica mette all’inizio una distanza tra il lettore e le vicende, per poi precipitarlo di colpo nella rete sempre più stretta di menzogne del protagonista. La cosa più assurda e straniante è che alla fine ci si sente soffocare nel vicolo cieco assieme all’assassino: una specie di contraddittoria empatia, che genera ansia e, al contempo, sollievo. Questa è la pazzesca bravura dell’autore.