Adoro la tecnologia, tutto quello che riguarda il futuro, le nuove scoperte, il progresso, i cambiamenti, ma questa passione convive, dentro di me, con un amore profondo per il passato, le tradizioni, i miti, il folklore. Insomma, le radici, che per me sono vitali.
Non posso fare a meno del mio MacBook, di Netflix, di internet, degli aerei, del mio smartphone, e non posso fare a meno di ricordare, di chiedere ai miei di raccontarmi cose del passato, non posso fare a meno di amare oggetti ormai in disuso ma che hanno significato qualcosa. Ricordare, soprattutto, è una cosa che amo fare e alla quale non posso rinunciare, anche se spesso provoca intensa malinconia, come quando penso alla casa dei nonni, un tempo piena di calore, voci, risate, oggi fredda, muta, lontana.
La cucciata di Santa Lucia
Oggi, mia mamma, come ogni anno, ha cucinato la tradizionale “cucciata di Santa Lucia“, che è un’usanza di San Donato di Ninea, il paesino dei miei nonni e dove i miei genitori sono nati e cresciuti (e dove ho trascorso molte estati e parecchi natali della mia vita). Le ho chiesto di raccontarmi la storia.
La cucciata non è altro che una zuppa di cereali, pomodoro e peperoncino, un pasto poverissimo ma che in una società contadina e abituata all’indigenza come quella dei miei nonni era considerato quasi un tesoro. La cucciata poteva essere fatta col mais o col grano, a seconda delle preferenze. Mia mamma la preferiva di mais, papà di grano. I miei nonni, mi sa, la amavano in entrambi i modi.
La tradizione raccontata da mamma (via nonna)
La cucciata si preparava il 12 dicembre sera, perché una ciotola veniva lasciata accanto al camino per Santa Lucia, che sarebbe passata durante la notte. Non a portare doni, no. Di doni non se ne parlava neanche a quei tempi. A quei tempi, si aveva sempre fame, nessuno pensava ai regali ma a mettere qualcosa nello stomaco.
Così, durante la notte, Santa Lucia scendeva dal camino e, come al solito, lasciava un’impronta nella cucciata. Quello era il segno che la santa era passata e la tradizione poteva continuare.
La mattina, appena svegli, ci si riuniva attorno al fuoco. Le famiglie erano tutte povere, ma alcuni erano più poveri degli altri, di una povertà estrema, feroce, terribile. I bambini più indigenti, gli orfani e qualche adulto vinto dalla fame, sapevano ch’era Santa Lucia e uscivano in strada, con due secchi di latta in mano. Si fermavano davanti alle case e gridavano: “Zi’ zi’, ‘a cucciata i’ Santa Lucia!”
Era il richiamo: le porte si aprivano, le donne uscivano coi calderoni e i mestoli e i secchi di latta venivano riempiti per quei bambini che non avevano nulla, soltanto fame. Quando il via vai di bambini era finito, si faceva colazione tutti insieme, con ciò che rimaneva: una ciotola di cucciata e un bicchiere di vino.
Credo sia una delle tradizioni più belle e commoventi che io abbia mai sentito. Si cucinava per gli altri, per i bisognosi, in un tempo in cui tutti erano bisognosi. Lo si faceva, perché in quelle piccole, lontane comunità, il valore della vita umana era sentito e avere fame era considerato un male da combattere, qualcosa di impensabile. E vi assicuro, i Calabresi ancora oggi combattono strenuamente la fame a suon di generosi pranzi luculliani.
Questo per chi crede che i Calabresi siano schivi, misantropi, sospettosi. Non ho mai conosciuto un popolo più accogliente e gentile, di una gentilezza un po’ ruvida, certo, mai ampollosa, ma sempre concreta, reale.
Immagino mia nonna riversare mestolate di cucciata nei secchielli di questi bambini, la immagino ridere, immagino nonno col suo bicchiere di vino e il suo sorriso timido. E vedo la loro porta sempre aperta, a ogni ora del giorno, e una casa pronta ad accogliere chiunque ne avesse bisogno.
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