Pubblicato nel 1963, La campana di vetro è l’unico romanzo della poetessa americana, scritto, per ammissione della stessa autrice, “per dare sfogo alla piccola terribile allegoria ancora una volta prima di potermene liberare”.

Un mese dopo la sua pubblicazione, Sylvia si suicida, nella maniera – terribile, crudele – che tutti conosciamo: dopo aver chiuso a chiave nella loro cameretta i figli, va in cucina, apre le manopole del gas, mette la testa nel forno e così muore.

Probabilmente, non era bastato scriverne, per liberarsi del peso e delle catene, della terribile allegoria che ancora la perseguitava e, forse, questa è la ragione per cui questo romanzo ha un valore così speciale, così importante.

È la testimonianza spietata di un mondo, pragmatico e privo di vie d’uscita, che considera la poesia polverosa, ridondante, perfino ridicola, se paragonata ai veri valori della società: un buon lavoro, un matrimonio, dei figli, una bella casa.

Esther, la protagonista della Campana di vetro, ottima studentessa, amante della poesia, adolescente ancora alla ricerca della sua strada, vive in un mondo che le offre la possibilità di fare uno stage in una rivista femminile a New York, un mondo scintillante e pieno di possibilità ma che nasconde, sotto le belle maschere, regole e leggi non scritte, catene e prigioni.

Esther è una donna, deve mantenersi pura per il matrimonio, ma non fare la schizzinosa con i maschi, può amare la carriera e scrivere, ma un giorno dovrà sposare un buon partito e fare dei figli, può sognare di viaggiare per il mondo, ma non sarà mai completa se non accetterà che dovrà prima o poi fermarsi, lasciar andare la poesia e dedicarsi a cose più concrete.

O dovrà accettare l’idea che l’amore, un marito, dei figli, non sono compatibili col suo sogno di scrivere.

Ecco perché, a un certo punto, Esther si sente persa, la sua mente s’infrange, si sente come se guardasse un albero dai molti rami, ognuno rappresenta una scelta (un marito, o i viaggi, o gli amanti, o la poesia) ma Esther non sa cosa scegliere e resta a guardare, a morire di fame.

Una scena bellissima del romanzo è quella in cui Esther, sulla cima dell’hotel dove risiede a New York, si libera di tutti i bei vestiti che le sono stati regalati, un gesto di protesta, verso un mondo che proclama la purezza della donna, ma non le protegge dagli stupri, che le vuole forti e perfette, ma non ha pietà per le loro indecisioni.

È una scena che segna la svolta, il passaggio dalla prima parte della storia, scritta come un romanzo di formazione, e la seconda parte, che racchiude il delirio del manicomio, la caduta nell’abisso della depressione, i tentativi di suicidio.

A un livello puramente tecnico, il linguaggio usato dalla Plath per descrivere la curva verso il buio della sua protagonista è semplicemente perfetto, dolorosamente reale e crudele, una scrittura fosca, terribile, in cui risplendono i lampi azzurrini dell’elettroshock, per mezzo della quale, sulla pelle, potrete avvertire il tocco gelido della lama, il freddo delle onde del mare, un mare che non consola, ma che è il simbolo di un’immensa e inconsolabile solitudine.

Nel buio della scrittura, emergono volti – il bravo ragazzo che vorrebbe sposarla ma non l’ha mai compresa; l’altro, che le ha strappato la verginità in una specie di stupro, ma che non sa neanche di averlo fatto; la madre che piange perché non l’ha mai accettata; Joan, l’amica-nemica lesbica, che come lei non si è sentita mai compresa; il dottore che voleva curarla e che ha finito per cancellarla.

Sono maschere, sono simboli di un mondo diventato estraneo e che non fa altro che far sentire Esther ancora più distante, ancora più sbagliata.

La campana di vetro di Sylvia Plath è un pugno nello stomaco, un calcio alle regole del sentire comune, a una società, quella maccartista raccontata nel romanzo, ma anche quella contemporanea, puritana e bigotta, cieca e bugiarda, che inneggia alla libertà ma punisce chi vi aspira davvero.

In questo mondo fatto di regole e strutture, il poeta non sopravvive, è una macchia d’inchiostro sul foglio pulito della banale e rassicurante quotidianità, una macchia che dev’essere cancellata, ricorrendo perfino all’elettroshock.

La scrittura della Plath è pura poesia, crudele e bellissima. Bisogna avere coraggio per scrivere così. E, nonostante l’esito della sua vita, Sylvia Plath aveva un coraggio pazzesco mentre scriveva.

Ogni donna dovrebbe leggere questo libro, soprattutto le ragazze giovani, soprattutto quelle che pensano di essere sbagliate: forse sono gli altri a non essere all’altezza dei vostri sogni, non fatevi mettere sotto una campana di vetro.

Autore

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *