105 minuti di solitudine, corruzione, cocaina, disperazione e di una furiosa e sconcertante bellezza. Tratto dal romanzo di Walter Siti, Il contagio è un film di poche parole e moltissima umanità, col fiato corto e l’ampio respiro. É il ritratto crudele e struggente della borgata romana, che finisce per comprendere le periferie di tutto il mondo e da cui si passa al dramma della Città, agglomerato urbano e spazio condiviso, nella sua spersonalizzante impostazione e ai singoli drammi interiori, ancora più tragici nelle loro terribili somiglianze.
[ Sono riflessioni personali e c’è qualche spoiler. Siete avvisati. ]
Titolo: Il contagio
Regia: Matteo Botrugno, Daniele Coluccini
Durata: 105 minuti
Uscita: 28 settembre 2017
Cast: Anna Foglietta, Vinicio Marchioni, Vincenzo Salemme, Giulia Bevilacqua, Maurizio Tesei, Luciana De Falco, Daniele Parisi, Nuccio Siano, Fabio Gomiero, Michele Botrugno
Trama: Le vite di Chiara e Marcello (Vinicio Marchioni), quelle di Mauro e Simona, e del boss di quartiere Carmine si agitano in una vecchia palazzina di borgata, in uno scenario di umanità mutevole perennemente sospesa tra il tragico e il comico. Come il registro del film Il contagio, una tranche de vie suburbana in cui si inserisce il professor Walter (Vincenzo Salemme), scrittore di estrazione borghese che ha da tempo una relazione con Marcello, ex culturista dalla sessualità incerta. Se gli inquilini della spoglia palazzina di periferia accettano con rassegnazione le proprie vite sonnolente, Mauro, freddo e ambizioso spacciatore, sembra il solo a sentire la necessità di una svolta. I poteri corrotti irrompono in un angolo della periferia. Criminali, affaristi, palazzinari: un lucido affresco della Roma contemporanea.
La mia recensione
Periferia romana, la voce del Professore, nessuna immagine, solo buio: le parole dello scrittore s’introdurranno, anche in seguito, come sprazzi di poesia nei momenti più tragici del racconto, a disinfettare ferite e fissare momenti che, altrimenti, andrebbero persi. Una porta chiusa si apre all’improvviso, come un sipario. Il pubblico fissa la perfetta simmetria di un corridoio sul quale si affacciano alcune porte: quattro persone entrano in scena, un uomo, una ragazza che lavora per lui e una giovane coppia, Mauro (Maurizio Tesei) e Simona (Giulia Bevilacqua), in cerca di un nuovo appartamento.
Un’impostazione teatrale, in cui ogni elemento ha il suo preciso significato: inquadratura fissa, la luce e le ombre che scandiscono una scena volutamente spoglia, l’abbigliamento trash e la strafottenza con cui mastica la gomma la ragazza che lavora per il padrone dell’appartamento, il cui sogno è (naturalmente) “fare cinema”, l’entusiasmo di Simona per una casa con tre bagni e un affitto bloccato a 70 euro, che non sa quanto quei 70 euro le costeranno davvero. Mauro entra in scena pagando una specie di pizzo per compiere il primo, decisivo passo della scalata che lo porterà in alto, sempre più in alto fino a fargli perdere del tutto il contatto con le proprie radici.
Mentre Mauro e Simona iniziano la loro nuova vita in via Vermeer, la telecamera esce dall’appartamento, esce dal palazzo, lo sguardo si allarga, e il pubblico si trova davanti una palazzina che ha la struttura ad archi di un teatro e che, proprio come in un teatro, ci offre la prima visuale su quasi tutti i protagonisti della storia. Lo sguardo va su e giù, a destra e a sinistra e ci mostra per prima cosa le donne, testimoni della presenza/assenza dei loro compagni, mariti, fratelli, figli, specchio di una periferia tragica e grottesca, di una vita che indossa la maschera della commedia fuori e quella della tragedia dentro: sui balconi ci si punzecchia, si ride e ci si confida, mentre si urla, si piange, ci si consuma nell’intimità della casa. Romano, napoletano, siciliano: gli accenti si mescolano, in un coloratissimo affresco, un guazzabuglio che, malgrado tutto, ha un suo preciso ordine.
Una ragazzina rom rovista nella spazzatura davanti al palazzo ma viene scacciata via, in malo modo, da uno degli inquilini, Attilio, che, subito dopo, non esita a frugare a sua volta nell’immondizia: la struttura ipocrita e meschina nella quale ci troviamo è definita da questa semplice scena, in cui il degrado diventa una piramide: non importa quanto deboli e miserabili ci si possa sentire, c’è sempre qualcuno al di sotto, sul quale scaricare la propria (identica) miseria.
La presenza della ragazzina rom, triste ed emarginata, eppure composta nella sua miseria, commenta le scene di fallimento e solitudine dei vari protagonisti, è una quieta spettatrice e un monito silenzioso: siamo noi, seduti in poltrona, mentre frughiamo fra le povere vite di uomini e donne sconosciuti alla ricerca di cose dimenticate e sono loro, i protagonisti del dramma. Col suo carretto e lo sguardo serio ma lucido, la ragazzina rom è l’unico personaggio a non nascondere i suoi bisogni, a non fingersi diversa da ciò che è, compare all’inizio, al centro e alla fine del film, ad aprire il sipario, poi nel punto di svolta, quando sono svelate le solitudini dei protagonisti, e alla fine, come chiosa tragica e struggente.
Il film è raccontato in due tempi: la prima parte si concentra sulla palazzina di via Vermeer, sulla vita che si stratifica al suo interno, sulla dicotomia dentro/fuori e sulle singole solitudini dei protagonisti, la seconda parte compie un salto in avanti di tre anni e si concentra su Mauro e sulla corruzione che, come una malattia contagiosa, si è allargata, prendendo possesso di ogni singolo spazio della sua vita.
Il ritmo della prima parte del film è misurato, lento, carezzevole, la luce calda di un perenne pomeriggio illumina i contorni di corpi e oggetti, i granelli di polvere in aria, la staticità di case che fungono solo da sfondo, scenografie asettiche fatte per ospitare la presenza ossessiva degli attori. Due sedie e in mezzo un tavolo, per far parlare Chiara e Mauro della distanza che li separa, una porzione di specchio che riflette i lividi che il marito violento lascia sul corpo di Flaminia (Luciana De Falco), l’opulenza dell’appartamento di Mauro e Simona, che descrive il loro rapporto perfetto basato sull’assenza di dialogo, ecc.
Entrando e uscendo dalle case della palazzina, conosciamo dunque le singole solitudini dei suoi inquilini e le relazioni tossiche che intrattengono fra loro, svelate in una sequenza bellissima in slow-motion, commentata alla perfezione da “Quelle parole” di Lucilla Galeazzi, in cui scopriamo il mostro che consuma Chiara da dentro, la dipendenza e la disperazione di Marcello, in bilico fra le sue due vite (quella con Chiara, che gli è toccata in sorte, e quella col Professore, che ha scelto per disperazione) e via via tutto il corollario di personaggi secondari, che contribuisce ad arricchire e completare il dramma della periferia.
Su tutte queste vite, quella del Professore, di Walter, lo scrittore, il solitario timido e outsider, disposto a pagare per essere amato, a rischiare la vita pur di far parte del triste circo nel quale si esibisce Marcello, “ragazzo” di quarant’anni che si spacca di palestra e cocaina, ma si sveglia piangendo quando sogna la morte del suo cane, l’unico affetto non contaminato che ancora possiede. Walter (Vincenzo Salemme) è una presenza evanescente eppure costante, quando sembra che non ci sia nessuno a seguire le scie di dolore e dramma che serpeggiano sulla scena, c’è la sua voce confortante, che esce da un appartamento colmo di libri, di parole non dette e parole da scrivere, per riempire i vuoti e i silenzi che ci sono fuori.
Nella seconda parte, il salto di tre anni spiazza all’inizio, ma serve a portarci dove si trova Mauro, protagonista e POV principale di questa parte del film: usciamo, dunque, con lui dalla palazzina di via Vermeer ed entriamo in una delle zone in di Roma, in un appartamento luminoso e ricco, che Mauro si è procurato con la sua inarrestabile scalata verso il successo. Più soldi, più cocaina, lasciata sbadatamente sui lucidi mobili di casa, più relazioni sessuali usa e getta, consumate senza piacere esattamente come alcol, sigarette, droga: sono lontanissime le albe sui tetti di Roma, la birra e le canne consumate con l’amico Marcello, sono lontani i, seppur minimi, intervalli di pace che c’erano un tempo; la vita ora è tensione, abisso e rumore, i brevi silenzi sono procurati da ossessive sniffate di coca: la scalata verso la vetta del mondo si è trasformata in una discesa agli inferi popolata da corpi che si dimenano sulla pista da ballo, un mondo in cui le voci sono scomparse, sopraffatte dalla musica techno, in cui i colori sono svaniti, ammassati in una poltiglia blu elettrico e intermittente.
Mauro comprende che la sua vita è un aggirarsi immotivato fra corpi e rumori, che non c’è più alcuna vetta da raggiungere, che nulla ha più alcun significato, in una scena macbettiana, quella in cui Mauro cammina come uno zombie nella massa indistinta di gente:
La vita non è che un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla.
E come in un dramma shakespeariano, il martirio finale: le luci delle auto illuminano un San Sebastiano pop, il corpo nudo legato a un palo e le pietre che, in slow-motion, fendono l’aria. Non c’è sangue, ma la furia dionisiaca, invasata, degli aguzzini è descrizione perfetta del brutale, quanto ineluttabile, martirio, che qui assume i contorni di un sacrificio rituale. Mauro assiste finché può, poi le sue palpebre si chiudono sulla materializzazione delle sue colpe, dando la cifra esatta della sua impotenza, dell’inutilità di qualsiasi altro slancio: non può esserci perdono o via d’uscita, l’unica strada è quella della resa senza condizioni, l’unico modo è affidarsi a una giustizia asettica ed esterna, che possa proteggerlo dalla sua stessa morale.
Il racconto oscilla fra l’elegiaco e il sincopato, fra la poesia e il trash: prima parte distesa, immersa in una luce calda e, a tratti, sonnacchiosa, impostazione teatrale con una sceneggiatura che tende al monologo; seconda parte cupa, rapida (come la corsa sempre più forsennata di Mauro per le strade di Roma), televisiva, dialoghi più serrati e brevi. L’importanza del rapporto fra Marcello e Walter è solo accennato in una bellissima scena d’amore fra i due, in cui alle immagini delicate di carezze e sguardi si sovrappone il carnale raccontare del Professore; La coppia Marcello/Mauro, invece, è magnifica espressione del disagio imperante. Poche le scene che li vedono protagonisti assieme, ma abbastanza per mostrarci il lato nascosto di entrambi: l’alba su Roma a confidarsi sciocchezze, momento distensivo e poetico, intriso di malinconici addii, l’incontro disperato alla fine del film, in cui Marcello va a pregare l’ex amico di aiutarlo, coi due che restano separati da una porta e il monologo di Marcello che duetta col silenzio di Mauro e che dà vita a quello che forse è il più potente dialogo dell’intero film. E poi la cruenta sequenza finale, in cui la distanza tra i due è breve e immensa allo stesso tempo.
Infine, Nuccio Siano nei panni del criminale Carmine D’Antonio ha un ruolo difficilissimo, quello del cattivo assoluto. Il boss di quartiere, che specula sui centri d’accoglienza, si rifiuta di aiutare i suoi protetti, fa ammazzare gente per mille euro, ride della sofferenza altrui, incarna una malvagità che non lascia spazio al minimo perdono. E’ l’immagine stessa del “contagio”, della forza buia che parte dalla periferia e va verso il centro e viceversa, una forza che non può essere arrestata, perché come una malattia contagiosa si diffonde e troverà sempre nuovi modi e nuovi spazi in cui attecchire. Il male non ha volto, racconta l’interpretazione di Nuccio Siano, ha la sigaretta in bocca e il sorriso spietato mentre in un vicolo buio ordina di picchiare selvaggiamente un uomo, ha la camicia immacolata e la cravatta, mentre parla di solidarietà alle cene con persone importanti. Non è riconoscibile e, allo stesso tempo, si vede benissimo: è costituito dalle piccole sconfitte quotidiane e dalle grandi paure assolute, è un mostro dalle mille espressioni, tutte quelle portate sulla scena da Nuccio Siano. E se anche Carmine D’Antonio, alla fine, dovesse finire maciullato nel tritacarne della corruzione, un altro prenderà il suo posto.
Un film che prende la verità e la spoglia, lasciandola nuda ed esposta sulla scena, in cui l’unico margine di una timida speranza è dato dalle parole del Professore che assicurano il ricordo commosso della povera umanità massacrata sulla scena: è questa l’unica salvezza, l’unico conforto concesso agli uomini.